Si pensa alla figura di un preside, e l’immaginazione vola al profilo severo del dirigente un po’ arcigno, nei nostri tempi anche alquanto carico di guai. Maurizio Carandini, dirigente scolastico nell’Alessandrino, sfata luoghi comuni consunti con le sue attività parallele, come questo librino immaginifico, svelto, romantico e inconsueto, scritto per gli alunni delle ultime classi delle elementari e per le scuole medie. Un libro di cui parlo con affetto, visto che sono coinvolta nella trama come moglie (reale) del protagonista, e firmo addirittura la postfazione. Per la memoria di Mimmo, il prof. Carandini ha fatto molto più di me: non solo il libro, ma è sua anche l’idea e la cura della mostra fotografica “Con la guerra negli occhi” che sta girando l’Italia.
La tv italiana che ha dato il risalto più corretto ai vincitori del premio “Mimmo Càndito – Giornalismo a testa alta”, è stata Sky. Attraverso semplici mail, abbiamo scoperto colleghi appassionati come il direttore Giuseppe De Bellis e anche il giornalista Michele Cagiano (nella foto), che conoscono e apprezzano il lavoro di Mimmo sul campo. Abbiamo chiesto, a Michele Cagiano, una testimonianza del modo di lavorare del nostro inviato molto speciale, nel suo ultimo servizio in Libia, in zona di guerra.
Mentre l’attenzione del mondo è tornata a puntarsi sul Libano, dopo la drammatica esplosione dell’altro giorno, abbiamo ritrovato il racconto dell’arrivo di Mimmo nella tribolata area, che frequentò da inviato speciale molto a lungo, come qui racconta nel dipanarsi di un dietro le quinte della sua prima volta in guerra
“La mia prima guerra fu il Libano”,estratto da “Dal nostro inviato in guerra” di Mimmo Candito, ed. Theoria 1997
“Fu una settimana dura, per uno che una guerra l’aveva vista solo al cine”
La guerra del Libano andò avanti dal ’76 al ’90. In quindici anni, se dovessi sommare tutto il tempo che passai laggiù, a volte settimane, a volte uno o due mesi, credo che supererei il conto di un paio d’anni.
I primi frutti del Premio “Giornalismo a testa alta” dedicato alla memoria del reporter e inviato di guerra davvero speciale Mimmo Càndito, scomparso il 3 marzo 2018, sono due lavori: uno già svolto, uno ancora da effettuare. Oltre alla sezione Opere, infatti, il Premio ha voluto aiutare concretamente – anche nella consapevolezza della crisi del settore – la realizzazione ex novo di un réportage giornalistico, con la sezione “Progetti”.
In entrambi i casi si tratta di viaggi tra dati e documenti, analisi politiche e testimonianze, ma soprattutto tra volti e storie di persone concrete, capaci di raccontare dalla loro angolazione i tempi che stiamo vivendo. Un giornalismo che prova a rispecchiare in ambito internazionale, nello spirito di Mimmo, l’indipendenza nella ricostruzione e nella rappresentazione dei fatti, per interpretarli e collocarli nel loro contesto storico, geografico e culturale. Un giornalismo che non rinnega l’uso della tecnologia ma che affianca agli algoritmi di Google il compito inderogabile di un cronista: verificare di persona la notizia.
Il Premio si è completamente autofinanziato, attraverso un crowdfunding online al quale hanno partecipato con solo colleghi e amici di Mimmo ma anche lettori ed estimatori che lo hanno apprezzato negli anni attraverso i réportage e i libri.
Non è stato facile per la Giuria – composta dalle giornaliste Marina Verna ed Emmanuela Banfo, e dallo storico e docente Alessandro Triulzi – scegliere tra le trenta candidature ricevute (metà donne, metà uomini, dai 56 ai 26 anni). La preselezione ha consegnato alla Giuria due cinquine di ottimo livello. Tra i partecipanti ci sono giornalisti affermati della carta stampata, tv e web, e giovani alle seconde armi, freelance e articolo 1.
I vincitori
Categoria Opere – Simona Carnino
Per la categoria OPERE il Premio va a “L’epopea dei migranti centroamericani al tempo di Trump” di SIMONA CARNINO, per rigore, completezza, carica emotiva. Pubblicata su “Missioni Consolata”, l’indagine affronta le sfaccettature del fenomeno migratorio nel Centro America con rigore di analisi, completezza nella raccolta dei dati e diversificazione delle fonti. L’autrice racconta storie senza condiscendere alla retorica o alla spettacolarizzazione. In coerenza con il giornalismo di Càndito, Carnino sperimenta in prima persona ciò di cui scrive: la narrazione è il risultato di un lavoro antecedente di studio e approfondimento del tema.
Categoria Progetti – Marco Benedettelli
Per la categoria PROGETTI il Premio è assegnato a “Da braccianti a operai per il mercato globale. Il nuovo proletariato etiope del polo industriale di Mekelle” di MARCO BENEDETTELLI per originalità, coinvolgimento diretto e conoscenza dell’area. L’inchiesta verte su un tema per lo più ignoto al grande pubblico ma di grande portata per il continente africano, la crescita di una nuova classe operaia in un Paese che esce da un ventennio di guerra con la confinante Eritrea e che mantiene affollati campi profughi, e una popolazione in fuga dall’economia contadina. La regione del Tigray, nel nord, appare come un’area di interesse strategico sia per la comprensione del faticoso processo di industrializzazione in atto, sia per il modello economico del governo regionale, basato sulla produzione di beni a basso costo per l’estero. Due banchi di prova importanti per le promesse di “Rinascimento africano” nel più importante Stato-nazione dell’Africa Orientale.
I finalisti della Prima Edizione
Dei 30 candidati al Premio sono stati selezionati per la Giuria dieci finalisti, e non è stato facile poi decidere i due vincitori, poiché tutti i lavori sono meritevoli di attenzione. La Giuria ha perciò deciso di non conferire alcuna menzione speciale alle otto candidature giunte in finale.
Sezione OPERE
LAURA BATTAGLIA con “Yemen, un paradiso in polvere” offre uno sguardo privilegiato su una delle peggiori crisi del pianeta. Il colloquio con le popolazioni di Mocha e Hodeida è molto diretto e fa emergere i dettagli più crudi e tutto l’ orrore della guerra.
DANIELE BELLOCCHIO. “Il Ciad, in fuga da Boko Haram”, narra una periferia estrema del paese, lontano dalle battaglie di Mosul e Raqqa. Se ne leggono gli orrori attraverso le voci delle vittime, i sopravvissuti, i profughi in fuga sulle sponde del lago Ciad, i soldati male equipaggiati che devono affrontare i jihadisti.
L’inchiesta di NELLO SCAVO, “Libia, tra segreti di Stato e accordi indicibili”, condotta da passione e indignazione, porta alla luce i compromessi indicibili fra l’Italia e la Libia, cercando di scoperchiare la “versione ufficiale”.
“Venne alla spiaggia un assassino” è il libro di ELENA STANCANELLI, che racconta la propria partecipazione alla spedizione di una ONG italiana. Un diario di bordo originale ed autorevole, dal quale emergono disagi e pericoli delle tragedie che quotidianamente si consumano nel Mediterraneo.
Sezione PROGETTI
VIOLA HAJAGOS, in “Centroamerica e diritto di aborto”, parte dal tema dell’aborto per analizzare l’estremo disagio femminile dell’area. Il valore del progetto è nella pluralità delle fonti: interviste alle protagoniste, analisi dei dati, valutazione dell’informazione locale.
“I gecekondu di Istanbul” di FRANCESCO PASTA, propone di analizzare le trasformazioni urbane in corso in alcuni gecekondu, i quartieri più poveri ed in difficoltà di Istanbul, esaminandone i risvolti sociali e politici nella Turchia di Erdogan.
“Oltre il confine: migranti attraverso il Marocco” di ROBERTO PERSIA, MAGED SROUR e GIOVANNI CULMONE. Cosa succeda davvero agli immigrati che passano dal Marocco è un mistero. L’Europa firma accordi e trasferisce fondi pur di non vedere. La proposta pone buone premesse per scoprire verità scomode non solo per i governi sovranisti.
SARA TONINI in “Il ruolo di internet nella resistenza palestinese” scrive: “Il progetto si propone di rappresentare la resistenza palestinese di oggi perché, più di altre, parte da un presupposto fondamentale per ogni sviluppo democratico: l’informazione”. Il ruolo giocato dai social media rappresenta un punto di vista originale e prezioso sul conflitto arabo-israeliano.
C’è stato un tempo in cui l’informazione condizionava davvero i comportamenti del Potere, e il Potere metteva in atto le prime difese. Ce ne parla Mimmo Càndito in un brano del libro antologico “Il braccio legato dietro la schiena”.
Quando il generale Schwarzkopf in partenza per il Golfo, nell’estate del ’90, si presentò alla Casa Bianca per salutare George Bush, comandante in capo della guerra che si stava preparando per liberare il Kuwait, il presidente degli Stati Uniti accomiatò il suo generale con una frase ch’era già un progetto organico, il disegno d’una vera strategia: “E ora mi raccomando, caro Schwarz, faccia in modo che non dobbiamo combattere più con un braccio legato dietro la schiena”. Quel “braccio legato” era il risultato del racconto che del conflitto in Vietnam avevano fatto i corrispondenti di guerra, il massacro di My Lai, la mancanza di una strategia convincente, lo stolido gap di una guerra asimmetrica tra i bombardieri a stelle e strisce e le tattiche di guerriglia dei vietcong: scossa, turbata, angosciata da quei marines morti che vedeva apparire ogni giorno nel televisore di casa, la società americana s’era mobilitata a chiedere il ritiro dei G.I. Men, condizionando perciò drammaticamente la condotta militare e le scelte politiche della Casa Bianca. Ora il Presidente chiedeva una strategia nuova.
L’ebbe. Si chiamava “News management”, gestione delle notizie. Cioè controllo dei flussi informativi a monte, nella fase della produzione ancor prima che in quella dello scambio con i mass media. E questo vuol dire che oggi non si lancia l’attacco di una guerra se, prima, non si è messa a puntino la macchina informativa che deve saziare in modo addomesticato la bulimia dei giornali e dei telegiornali: da quei giorni di Schwartzkorpf gli eserciti hanno imparato a ingaggiare le più importanti agenzie pubblicitarie (lo fanno gli americani ma ormai lo fanno tutti – Milosevic se ne servì spudoratamente nella guerra del Kosovo) , montano con il loro aiuto apparati semiclandestini di “disinformazione”, e soprattutto preparano come per una recita teatrale la routine delle conferenze stampa quotidiane, dalle quali viene poi fornita la versione ufficiali dell’andamento della guerra.
In Qatar, nei mesi dell’ultimo assalto a Saddam Hussein, il tendone che raccoglieva i giornalisti per il briefing con il comando americano, ricreava una messinscena hollywoodiana, pensata, disegnata e gestita, come il set d’un remake del vecchio Lawrence d’Arabia; a organizzarla erano stati chiamati autentici scenografi di Hollywood, ingaggiati proprio per la loro capacità di contribuire credibilmente a trasformare in realtà la finzione.
A questo punto, il fotogramma di William Russell, il primo corrispondente di guerra della storia, sul fronte in Crimea, e quello di Monici, della Botteri, di Negri, di Chierici, sul fronte di Baghdad o su quello di Kabul, ormai non combaciano più.
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