Mimmo Cándito: grande anima
Sono stato uno studente del professore Mimmo Cándito, uno degli ultimi, uno di quelli che gli ha rotto le scatole fino all’ultimo per avere l’opportunità di sostenere un esame con lui. A distanza di mesi ripenso a quei giorni, a quanto magari siamo stati impertinenti e poco delicati. Mi convinco sempre di più che il professor Cándito sia stato orgoglioso di noi. Nonostante la sua malattia avrebbe voluto incontrarci e farci sostenere l’esame di “Linguaggio giornalistico”. Forse questa è una delle prime lezioni che abbiamo appreso dal suo immenso bagaglio esperenziale: lottare per quello che si vuole nonostante le condizioni avverse che possono presentarsi. Poi, giustamente, qualcuno più saggio di noi ha convinto il prof. a desistere, non era il caso di sostenere un esame in ospedale e per quanto sia potente la forza mentale, spesso dobbiamo arrenderci alle condizioni fisiche. Anche per questo considero Mimmo una grande anima.
Spesso, nel mondo del giornalismo, si fa un gran parlare di integrità morale, dell’amore per la notizia oltre ogni ragionevole ostacolo, di non aver paura di parlare dei potenti e di decidere cosa è una notizia, non cosa fa notizia. Il giornalista con la schiena dritta l’ho visto fare a pochissimi eletti. Mimmo era uno di questi, e lo ha fatto in posti dove non era la cosa più scontata. Fare il giornalista con la schiena dritta, vuol dire assolvere al compito che Pulitzer designava per il giornalismo: una missione, un atto di amore verso la verità e uno slancio affettivo e razionale verso la creazione di un’opinione pubblica ben informata. In definitiva, fare il giornalista con la schiena dritta, è un atto di umanità. Significa migliorare la società, essere il collante di tutte le diversità di pensiero e opinione. Il giornalismo, fatto bene, è democratico e caritatevole: permette a tutti di creare qualcosa, fornendo gli stessi strumenti per l’analisi della quotidianità. Sarà poi compito dei riceventi utilizzare in modo fruttuoso questi strumenti per la creazione di una società migliore. Io questo l’ho capito dalle lezioni del professore Cándito, dalle pagine del reporter in “C’erano i reporter di guerra”, dalle confessioni di Mimmo nelle sue “55 vasche”.
Queste mie considerazioni sono supportate dalle parole di chi con Mimmo Cándito ha lavorato ed ha condiviso un cammino piacevole, ma non privo di difficoltà. Ciò dimostra, ancora una volta, la grande trasparenza della sua anima: ci sono alcune aspetti del suo essere, conosciuti da chiunque abbia incrociato il suo cammino, che risplendono a tal punto da essere notati anche da uno studentello sconosciuto. Il 15 marzo 2018 a Torino, l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, l’Associazione Stampa Subalpina, il Circolo della Stampa, il Centro di studi sul Giornalismo Gino Pestelli, organizzarono un incontro per onorare la memoria di Mimmo Cándito. All’evento erano presenti la moglie di Mimmo, Marinella Venegoni, Alberto Sinigallia, presidente dell’ordine dei giornalisti del Piemonte, Raffaele Fiengo del Corriere della Sera, Roberto Franchini de La Stampa, Gian Giacomo Migone che ha collaborato con il prof. Càndito per L’indice, Giampaolo Ormezzano e Bruno Gambarotta. Tra tutti questi invitanti eccellenti, c’ero anche io, semplice spettatore in evidente imbarazzo. Mi colpirono in particolare tre interventi:
Roberto Franchini disse che da Cándito aveva imparato cosa vuol dire essere sul campo di lavoro, poiché riusciva ad unire la sensibilità di un uomo che non accettava la guerra alla professionalità del giornalista che descriveva la guerra. Nel suo intervento Franchini evidenziò la grande leadership morale di Cándito, sottolineando come risultasse essere sempre un vincitore, mai un vinto;
Gian Giacomo Migone lo descrisse con una parola: INDIPENDENZA. La sua indipendenza se l’è guadagnata, poichè descrivere oggettivamente la realtà dà autorevolezza;
Raffaele Fiengo, invece, tracciò un profilo preciso del professor Cándito: un concentrato di mitezza e limpida tranquillità che si fonde con la rigorosità.
L’affetto delle persone che hanno conosciuto Mimmo avvolgeva tutta la sala in cerchi concentrici e al centro c’era la moglie di Mimmo, Marinella, a governare questo vortice. Io, personalmente, l’ho conosciuta insieme ai miei colleghi di università, alla camera ardente allestita per il prof. al Circolo dei Lettori. Appena ci siamo presentati, ci ha chiesto di attendere un attimo, pregandoci di non andare via. Voleva dirci qualcosa. Restammo sorpresi quando ci disse che stava aspettandoci e ancor di più quando si scusò con noi per la faccenda dell’esame. Noi, davvero impietriti da una simile nobiltà d’animo, rigettammo le sue scuse poiché non c’era motivo di scusarsi: anche noi non avremmo voluto sostenere l’esame in quelle condizioni, la nostra visita a Mimmo sarebbe stata l’occasione per fare una chiacchierata e darci appuntamento una volta risolto tutto. Ahimè, il tempo non ce l’ha concesso.
Tornando a casa, quello stesso giorno, ho capito una cosa: la grande anima del professore Cándito non era stata mai sola; per lunga parte della sua vita è stata affiancata da una straordinaria gemella. Giorni dopo aver conosciuto “La Marinella” (come Mimmo scrive nei suoi libri), ho riletto “55 vasche”, ed ho capito alcune cose che alla prima lettura mi erano sfuggite. Ho davvero avuto l’impressione di una storia che nasceva e si rinnovava ogni giorno, simile ma mai identica e con la straordinaria capacità di rinforzarsi. Una storia che parla di anime prima che di corpi, di forze che solo chi possiede può conoscere ed amministrare.
Ma Mimmo ha compiuto un passo ulteriore: è stato capace di insegnare a ricercare quella “forza dentro”, lasciando in chi ha colto questa unicità, un graffio che ancora oggi persiste. Se un giorno avrò l’onore di essere considerato un collega di Mimmo Cándito, gran parte del merito sarà della sua lezione di giornalismo che si aggroviglia ad una lezione ancora più importante: vivere la vita a testa alta, con la schiena dritta. Solo così si diventa indipendenti, solo così si diventa dei veri giornalisti, solo così si diventa Mimmo Cándito.
Lo stesso giorno in cui Mimmo ci ha lasciati, ho scritto queste righe:
“Ho visto Mimmo Cándito.
Ho visto la sua fisicità a malapena sgualcita dagli anni e dalle mille battaglie.
Ho visto le sue calze, di colore diverso, che mostrava, inconsapevolmente, sedendosi sulla cattedra a lezione.
Ho sentito Mimmo Cándito, la sua spietata voglia di vincere, la sua saggezza che mai è caduta nelle sabbie mobili della presunzione.
Ho letto Mimmo Cándito, i suoi articoli, le sue “55 vasche” che hanno sprigionato in me un tornado di emozioni, in cui ho rivisto la stessa forza di mio fratello, del quale ancora non riesco a scrivere.
Ho ascoltato Mimmo Cándito, a lezione, rapito dalla sua voce profonda e dalla sua ancor più profonda integrità.
Ho sentito Mimmo Cándito, al telefono, circa un mese fa, per decidere la data di recupero d’esame.
Ho visto, sentito, ascoltato, letto Mimmo Cándito, e tutto ciò mi riempie di orgoglio.
Onorato di aver passato qualche ora con lui, e condiviso una piccola parte della sua vita.
Sit tibi terra levis!”
Alessandro Villano, studente, ha raccontato così nel suo blog un professore abbastanza inconsueto