Londra, il dietrofront su Julian Assange
da “La Stampa” – ANNA ZAFESOVA – 11 Dicembre 2021
«Noi siamo l’antidoto alla tirannia», dice Dmitry Muratov, il direttore della Novaya Gazeta insignito del Nobel per la pace, ricordando dalla tribuna di Oslo a un mondo che «si è disinnamorato della democrazia» il ruolo del giornalismo nella sopravvivenza della libertà. Nelle stesse ore, un tribunale britannico apre un nuovo, ennesimo capitolo, nella saga giudiziaria interminabile di WikiLeaks, autorizzando l’estradizione di Julian Assange verso gli Stati Uniti, dove lo aspetta un processo nel quale rischia una condanna a decenni di carcere per aver ottenuto e pubblicato documenti segreti del governo americano. La polemica sul ruolo di Assange, e su quanto fosse legittimo accomunarlo a un giornalista, è stata al centro anche del dibattimento in aula. Esercitava il diritto alla libera informazione o stava cercando di screditare gli Stati Uniti con un’operazione senza precedenti? Rispondere affermativamente a entrambe le domande non sarebbe necessariamente una contraddizione.
Assange è stato infatti il primo di una serie di rivoluzionari digitali, un po’ giornalisti, un po’ politici, un po’ hacker e un po’ influencer, a volte spie che buttano il tesserino da 007 per diventare attivisti, a volte attivisti che in nome della loro battaglia si improvvisano spie, quelli che il termine inglese definisce “whistleblower”, il fischiatore. Eroi contraddittori e diversi, da Edward Snowden – che si nasconde alla giustizia americana nella Russia di Putin – ad Alexey Navalny, che proprio Putin ha rinchiuso in carcere, al team di cronisti d’inchiesta Bellingcat, al recente caso di Sergey Saveliev, l’ex detenuto riuscito a trafugare l’agghiacciante videoarchivio sulle torture nelle prigioni russe. Alcuni sfidano le democrazie, altri le dittature, sono mossi da motivazioni diverse, ma hanno tutti una cosa in comune: sono gli eroi del mondo digitale, dove i Papers e Leaks permettono di violare segreti di Stato, e di far entrare nel grande gioco dei servizi segreti anche chi non ne faceva parte.
Ovvio che di fronte a questi paladini della denuncia la tentazione dei governi e dei servizi sia quella di chiuderli in una cella e buttare via la chiave. I “whistleblower”sono sempre esistiti – basta ricordare la “gola profonda” del caso Watergate – così come le complicità dei media nel pubblicare informazioni che solo l’intelligence avrebbe potuto reperire. La novità di Assange è che non si è limitato a smascherare uno scandalo. Ha pubblicato una mole immensa di documenti, dove le informazioni autenticamente sensibili sono state sommerse da tonnellate di pettegolezzi politici e giudizi spregiudicati dei diplomatici americani sui loro interlocutori.
Nulla che i diretti interessati non sapessero, ordinaria amministrazione della diplomazia, coperta dal segreto non per ordire trame oscure, ma per evitare comprensibili imbarazzi. Forse il vero reato di Assange è proprio questo, aver esposto al grande pubblico i meccanismi del potere. In questo senso WikiLeaks è stata un’operazione populista ancora prima che il termine entrasse nel vocabolario politico, e il danno principale che ha arrecato è stato quello di diffondere disgusto verso chi governa le democrazie.
Con esultanza dei nemici delle democrazie, e non è un caso che la difesa più appassionata di Assange sia giunta dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, che ha parlato di “cannibalismo anglosassone”, come se decine di giornalisti non stessero scappando dalla Russia per colpa di persecuzioni, denunciate a gran voce dal Nobel Muratov.