La marcia di 300 mila profughi e combattenti verso l’interno dello Zaire incalzati dai tutsi
L’armata perduta dei miliziani hutu Gli ex militari che temono il rientro in Ruanda
Reportage – Una tragedia africana – La Stampa – 18/11/1996
GOMA DAL NOSTRO INVIATO Ieri sera, al tramonto, Mutamba Kalambanghele ha messo giù il sacco di povere cose che portava sulla testa e si è fermato. Sono tre giorni che camminava, ora era proprio distrutto. Ora doveva riposarsi, e il passaggio della frontiera – pazienza – anche se tardava ancora un giorno non era poi la fine del mondo. Mutamba Kalambanghele ha tirato fuori dal sacco due pezzi di legna e acceso il fuoco: avrebbe preparato una minestra di erbe, che poi era tutto quello che aveva. Due bimbi lo guardavano con gli occhi grandi, tendendosi stretti alla sua gamba. Mi hanno detto: “Bisquit, monsieur”, e tendevano le manine. I biscotti purtroppo erano finiti. Mutamba Kalambanghele ieri sera era l’ultimo – ma l’ultimo – nella lunga coda di profughi che ancora stavano marciando verso il Ruanda. Quando l’ho trovato, era al sesto chilometro fuori Goma. Se si cammina a passo svelto, sei chilometri si fanno in meno di un’ora. Un profugo ci mette tre ore buone, e Goma nemmeno si vedeva nell’ultimo orizzonte che la pioggia stava già incupendo. Ho promesso di portare stamattina i biscotti ai due bimbi, se riuscirò a ritrovarli. L’esodo è quasi terminato.
Quattrocentomila profughi si sono riversati in Ruanda in meno di tre giorni, un fiume ininterrotto che ha soffocato ogni capacità di assorbimento di quel Paese e ora ha disteso un mare di povera gente lungo la pianura che monta verso Kigali. Qui resta soltano una piccola coda, meno di cinquantamila persone comunque, che ieri stava marciando lentamente verso Goma e che il tramonto ha sorpreso lungo il cammino. Erano però due file di profughi che andavano ai bordi della strada, non più il muro compatto di corpi che per due giorni ha coperto ogni centimetro d’asfalto. Ma è proprio finita? Passati questi ultimi disgraziati, davvero il problema si sposta soltanto sull’assistenza a chi se n’è tornato in Ruanda? In Zaire c’era più di un milione di profughi ruandesi. Se mezzo milione (o, alla fine, settecentomila) passeranno in questi giorni la sbarra del confine, molti altri rimangono rintanati nello Zaire. E il problema degli aiuti resterà comunque una delicata materia di negoziato, poiché né Kinshasa né il nuovo potere del Kiwu vogliono che si dia assistenza ai profughi in questa parte della frontiera. Le truppe multinazionali che sono in arrivo non sembrano una soluzione adeguata a questa drammatica impasse, nell’ambiguità dei limiti che sono stati imposti alle loro operazioni sul terreno. E le prossime settimane finiranno per riaprire molte incertezze, sul flusso degli aiuti, sulla fattibilità dei corridoi di intervento, sulle relazioni da tenere con i soldati delle ex Far, le Forze armate ruandesi che ancora tengono sotto controllo la vita quotidiana dei profughi (e che quel controllo sia fortemente integrato nella loro collettività lo abbiamo verificato in questi giorni, penetrando nei campi abbandonati e scoprendo come le tende delle truppe hutu, e le loro armi, e le munizioni, fossero in mezzo alle altre tende, mescolate e confuse con queste). Il primo problema, comunque, è individuare dove stia ora questa massa di profughi che non ha lasciato lo Zaire. La foresta equatoriale che qui copre gran parte del territorio rende molto difficile ogni forma di contatto, e cela nel fondo di una giungla fitta e rigogliosa gli spostamenti di questa gente disperata, i loro stessi insediamenti. Ieri mattina, in un tentativo di individuarne le tracce e i movimenti, siamo riusciti a passare la linea di fuoco che divide tuttora i due fronti, da questa parte i guerriglieri tutsi zairesi e dall’altra le milizie hutu.
Abbiamo superato Sake, la città a una trentina di chilometri da Goma dove c’è stata l’ultima battaglia tra i due eserciti, e abbiamo preso la direzione del Sud, seguendo la strada di fango che affianca la sponda del lago. Il viaggio nella terra di nessuno – e dove nessuno è ancora passato – ci ha portati dentro un paesaggio di fascino straordinario, lungo minuscoli villaggi perduti nel tempo e boschi e foreste che scivolavano lentamente nella luce abbagliante dei grandi laghi. Il passaggio dell’auto, che le pozzanghere e il fango costringevano a una velocità minima, quasi un andare a passo d’uomo, veniva seguito da grandi feste e saluti a braccia in aria, tra i contadini che si arrestavano a guardare al lato della strada. Pioggia e sole si alternavano in sequenze rapide, e la punta dei vulcani e le montagne d’intorno sfioravano il tetto delle nuvole che si allungava verso Occidente. Era l’Africa antica, profonda, che si apriva al viaggio dentro la foresta, con il bagaglio di una sorpresa che nemmeno qualche raro tiro di fucile, e qualche cannonata, riuscivano a turbare. In una tappa, a Minova, dentro la giungla, abbiamo anche scoperto una piccola città degli orfani: scuole e collegi dove sono andati raggruppandosi i bimbi che la guerra ha lasciato abbandonati. Ne sono arrivati più di cinquecento, li stanno ancora contando; potrebbero essere anche mille. E intorno a loro hanno solo la foresta. In questa regione, che si stende accanto al lago Kiwu che scende giù, verso Bukavu, il controllo del territorio è ora nelle mani dei guerriglieri Mai-Mai, legati a riti magici e possessori sicuri dell’immortalità in battaglia (l’esercizio di alcune pratiche sciamaniche, e il rispetto di un paio di regole di vita, gli garantisce che nessuna pallottola riuscirà mai a perforare la corazza invisibile fornitagli dagli dei della foresta). I Mai-Mai sono alleati dei guerriglieri zairesi; ma i loro posti di blocco non sono stati mai un’esperienza rassicurante, perché tra fucili, mitra, e macete impugnati a braccio alzato, abbiamo avuto l’impressione più volte che il passaggio fosse una scommessa che poteva anche essere perduta. La scommessa, fortunatamente, non è stata mai perduta, e il viaggio – di quasi quattro ore – ha consentito di individuare dove si trovi ora il grosso dei profughi rimasto nello Zaire.
Le testimonianze trovate tra la gente della regione parlano di una massa di 250 mila uomini, forse anche 300 mila, che sta muovendo dal Sud verso Motanda e poi verso il massiccio del Massisi, a pochi chilometri dal nostro punto d’arrivo. Il piccolo esercito ha già raggiunto e saccheggiato la città di Kalehe, sul lago, e ora si è diretto verso l’interno. Nell’area del Massisi si starebbero concentrando ora alcune decine di migliaia di profughi che stavano nella regione di Goma (o anche più a Nord) e che non hanno seguito l’esodo verso il Ruanda di quasi tutti i loro compagni di sventura. Lungo la strada del ritorno verso Goma, i giornalisti hanno incontrato una sola camionetta che faceva più e più volte il tragitto tra Goma e il flusso dei profughi. Era il pick-up di un gruppo della Caritas che si chiama “Mungano” (vuol dire Solidarietà): un uomo di grande cuore e di grande coraggio, padre Francesco, ha fatto ripetutamente questo viaggio dell’amore, e ieri sera aveva portato nelle piccole baracche accanto alla cattedrale una settantina di bimbi e di adulti in preda al colera, al limite della resistenza. Questa cronaca amara di una storia che non finisce qui si chiude con una richiesta di aiuto: padre Francesco ha quasi nulla, la sua battaglia è disperata. E dietro di lui non ci sono burocrazie, né soldi sprecati per portavoci arroganti. Lui fa da solo, diamogli una mano.