La democrazia occidentale e i suoi nemici
Da “La Stampa” – 12 dicembre 2021 – Massimo Giannini
Fa un certo effetto leggere le cronache del “Summit per la Democrazia”, convocato online dall’Amministrazione Usa per discutere con i leader di ben 111 Paesi sullo stato di salute del mondo libero, nelle stesse ore in cui l’ex capo dello staff di Donald Trump alla Casa Bianca rivela l’esistenza di un simil-golpe per far saltare la proclamazione della vittoria di Joe Biden alle presidenziali del dicembre 2020. Di fronte a un cortocircuito logico-politico così evidente, più che il celebratissimo saggio di Karl Popper sulla “società aperta e i suoi nemici”, torna in mente un vecchissimo fumetto di Walt Kelly. Nel 1971, celebrando la Giornata mondiale della Terra e constatando i danni già allora devastanti inflitti al pianeta dalla mano dell’uomo, il cartoonist americano ci svelava con una battuta folgorante quello che troppo spesso non vogliamo vedere: “Abbiamo incontrato il nemico: siamo noi”.
La Dottrina Biden è ormai nota: è in atto una “recessione globale delle democrazie” e un’aggressione sistematica delle autocrazie. La Cina e la Russia, la Turchia e l’Iran. La minaccia è ovunque. E gli eserciti nemici, come l’Impero del Male teorizzato a suo tempo da Bush, incedono su più fronti. A colpi di armamenti e/o di investimenti. Di qui l’appello quasi sturziano ai “liberi e forti”: serve una grande alleanza, per difendere i nostri valori e i nostri principi, le nostre identità e le nostre libertà. Detta così sembra bella: cosa c’è di più buono e più giusto di un fronte comune a difesa delle liberaldemocrazie, stremate dall’emergenza pandemica, logorate dalla recessione economica, destabilizzate dal Grande Disordine Mondiale? In teoria, nulla. In pratica, la questione è più complessa. Per due motivi.
Il primo: le nostre nazioni allarmate non hanno le carte in regola per denunciare la “recessione democratica” altrui, se prima non si interrogano su cosa stia accadendo a loro stesse. Il secondo: al di là di un generico appello ideale, che se resta tale rischia persino di diventare ideologico, questo “Club delle democrazie” finora non ha saputo opporre granché di concreto ai suoi avversari esterni.
Oggi Freedom House ritiene che solo il 20% dei Paesi del globo sia pienamente libero, contro il 39 di dieci anni fa. Di qui l’invito agli Stati: fate “ordine in casa vostra”. Vale innanzitutto per gli Stati Uniti, dove Trump resta fortissimo nonostante le prove tecniche di colpo di Stato avviate con l’assedio a Capitol Hill, la sanità pubblica resta un tabù per 40 milioni di disperati, “black lives matter” resta uno slogan da corteo e Guantanamo resta una ferita mai curata all’habeas corpus. È il nuovo paradosso americano: gli Stati Uniti sono ancora “la più grande democrazia del pianeta”, ma non sono più “un esempio di democrazia”. E non lo dice solo uno storico progressista come Luciano Canfora. Lo sostiene il 17% degli intervistati, secondo un sondaggio internazionale di Pew Reasearch. Lo confermano i giovani tra i 18 e i 29 anni, che solo nel 7% dei casi ritengono gli Usa una “democrazia in buona salute”, secondo un’indagine dell’Harvard Institute of Politics.
Mettere “ordine in casa propria” è un dovere anche per l’Europa, dove le destre hanno ingrassato la tigre populista con l’ormone tossico dell’anti-politica e le sinistre non hanno fatto nulla per domarla. Il risultato è che governi e parlamenti hanno finito per delegittimare se stessi. E un numero crescente di cittadini, marginalizzati dalla globalizzazione ed esclusi dalla partecipazione, ha disconosciuto la propria cittadinanza. Convinti che votare non serva più a nulla, e che la democrazia non sia poi così importante. Perché non funziona, non decide, non risolve i problemi. Anche qui la disaffezione democratica non c’entra nulla con Xi o con Putin, ma promana direttamente dal ceto medio proletarizzato, arrabbiato e sobillato dagli impresari della paura, che ne hanno nutrito l’insicurezza sociale, l’ossessione razziale, il rancore istituzionale (lo spiega bene Tom Nichols nel suo ultimo saggio, “Il nemico dentro”, Luiss Editore).
Dunque il declino delle democrazie è in buona misura auto-prodotto. E sostituito dall’ascesa delle autocrazie elettive, dove i cripto-dittatori vincono opprimendo il popolo in nome del popolo. Senza arrivare in India o in Venezuela, basta fermarsi in Ungheria e in Polonia. Qui non servono più le giunte militari e il tintinnare di sciabole: le democrazie muoiono con altri mezzi, come sostengono Steven Levitsky e Daniel Ziblatt. Se questo è il quadro, Biden che invoca la Santa Alleanza somiglia al cane che abbaia alla luna. Guarda fuori, per non guardarsi dentro. All’opposto, chi ci vede benissimo è Papa Francesco: “La democrazia è un tesoro di civiltà e va custodita, non solo da un’entità superiore ma anche negli stessi Paesi. Contro la democrazia oggi vedo il pericolo dei populismi, che stanno ricominciando a mostrare le unghie…”. Bergoglio fiuta un pericolo reale: i populismi, spiazzati dal virus due anni fa, si stanno riorganizzando. Come avverte Ivan Krastev sul Financial Times, i nuovi lockdown imposti dalla variante Omicron stanno ridando filo da tessere alle forze anti-sistema dell’Unione.
Cina, Russia e potenze regionali incistate tra Asia e Medioriente speculano ovviamente sulla crisi delle democrazie occidentali. Lo fa la Cina, che cresce di una Russia all’anno e coltiva lungo le “Vie della Seta” un disegno egemonico e neo-imperiale. Con il 20% della popolazione mondiale e il 7% delle terre coltivate del pianeta, il Dragone esporta non il suo modello dittatoriale, ma la sua imponente capacità infrastrutturale, garantendola ai Paesi in via di sviluppo che possono assicurargli, insieme al posizionamento strategico, l’interscambio commerciale e alimentare. Dopo la feroce normalizzazione di Hong Kong, la tortura cinese si concentra adesso su Taiwan, il cui capo è colpito ogni giorno dalla goccia di Pechino che avverte: ricordati che devi cadere. E se lo ricordi anche Biden, firmatario dell’Aukuss con Australia e Gran Bretagna: il Pacifico non è “cosa loro”. La stessa cosa fa la Russia, che tiene in scacco l’Europa sul gas e North Stream 2 e continua ad ammassare truppe ai confini con l’Ucraina, alimentando un clima da invasione imminente. Cosa vuole davvero lo Zar di Mosca non è affatto chiaro, se non stoppare i tentativi di allargamento della Nato in quell’area.
Cosa oppone il Club a tutto questo risulta purtroppo ancora meno chiaro. Sulla Cina si balbetta. Sulla Russia si nicchia (a parte qualche rituale altolà, e ora l’annuncio di sanzioni Ue in arrivo per la famigerata Brigata Wagner, accusata di violazione dei diritti umani in Ucraina, in Siria e il Libia). Eppure la tragedia del Covid offrirebbe alle democrazie una magnifica opportunità. Invece di armare le truppe, carichiamo le siringhe. Vacciniamo subito quei 3 miliardi di persone che non se lo possono permettere. Finora il 66% dei Paesi del G7 ha ricevuto due dosi, mentre in Africa la quota è ferma al 7%. Pfizer ha consegnato 2 miliardi di vaccini, di cui 740 milioni di dosi ai paesi a basso e medio reddito, con un incasso di 36 miliardi di dollari. A fine 2022 consegnerà altri 1,8 miliardi di dosi, con un introito di altri 29 miliardi (per inciso, molto più della legge di bilancio appena varata da Draghi). Il colosso Usa vende il suo vaccino alla Ue a 19,50 euro a dose, mentre lo calmiera a 6,75 dollari per i Paesi a basso reddito. È ancora troppo, per chi non ha niente. E allora, in questo momento, il più grande spot per le democrazie non è il Club di Biden e nemmeno la guerra per Kiev o per Taipei. È il vaccino gratis, per tutti i poveri del mondo.