Questi reportage sono stati realizzati grazie al “Premio Mimmo Cándito – per un giornalismo a testa alta”, in collaborazione con La Stampa.
Di Letizia Tortello, foto Matteo Montaldo, mediazione e traduzione Damia Asadi e Saida Bajjou
Credo che questo di Letizia Tortello, vincitrice del Premio Progetto 2023, sia uno dei reportage piú accurati realizzati sulla condizione femminile in Africa; fa riflettere che contenga alcune costanti simili a quelle che si incontrano nei prodromi dei femminicidi del nostro Paese. Una piaga internazionale. E grazie a La Stampa che ha condiviso questa realizzazione; e brava Letizia
L’ultima volta che ho visto Ettore Mo è stata 5 anni fa, quando è venuto al funerale di Mimmo e come altri colleghi ha parlato di lui, con il suo stile semplice e asciutto, durante la cerimonia. Mimmo mi parlava spesso di Ettore, con il quale ha passato i suoi primi anni di inviato sui fronti più caldi del pianeta, fra Iraq, Afghanistan e altri territori dove bollivano pericoli che le vicende di questi giorni ci riportano alla mente. Ettore era piccolo piccolo, Mimmo alto alto, e formavano un formidabile “articolo il” che aveva in comune la passione per quel loro mestiere, per la verità a tutti i costi, e il disprezzo per i furbastri che nel comodo albergo e lontano dal fronte, aspettavano il loro ritorno per sentirne il racconto.
Me li immagino insieme nel cielo degli inviati di guerra. Qui un ritratto di Ettore dal Corriere della Sera, scritto da un loro collega, Lorenzo Cremonesi.
Marinella Venegoni
Detestava i sotterfugi, le scorciatoie, i furbetti che dicono di essere arrivati prima sul luogo della storia e invece se la inventano di sana pianta aggiungendo di fantasia, copiando dalle agenzie comodamente seduti nellecamere di albergo. Scriveva con i suoi ritmi, odiava la fretta dello scoop, ma poi, quando arrivava il suo articolo, capivi che era fatto di cose viste e vissute, condito di particolari inaspettati, magari contradditori, però veri, onesti, indubbiamente verificati di persona. E si arrabbiava quando in Direzione non ascoltavano le sue proposte, protestava a modo suo, irrompeva nella sala della riunione di redazione a sottolineare l’urgenza di andare, partire, recarsi sui posti per raccontare. Non gli importavano i soldi, le sue note spese erano sempre in ritardo e carenti, certamente non faceva “creste”, anzi, semmai metteva del suo, perché per lui il giornalismo e soprattutto il mestiere di inviato non era una professione come le altre, ma una sorta di missione, d’impegno totale e totalizzante al servizio del giornale, ma soprattutto del lettore e della necessità inderogabile di testimoniare.
Scriviamo queste righe di getto, a caldo, appena ricevuta la notizia della morte a 91 anni di Ettore Mo, platealmente definito uno degli ultimi “tra i grandi inviati” del giornalismo italiano e firma di prestigio per decenni del Corriere della Sera. Amava raccontarsi, spesso accompagnato da un bicchiere di vino, che – diceva – lo aiutava a “sciogliersi”, a mettere in moto le ali della creatività. Una sera a Gerusalemme, si era ai tempi della Prima Intifada tra la fine del 1987 e il 1988, dopo avere scritto il reportage dai campi profughi palestinesi in fiamme, si dilungò nel ricordare i suoi inizi.
Era nato a Borgomanero nel 1932, aveva finito il liceo classico e si era iscritto a Lingue e Letterature Straniere a Ca’Foscari, una delle facoltà più note dell’università di Venezia. Ma presto si era accorto che la vita universitaria non faceva per lui. Senza un soldo aveva iniziato a viaggiare: Parigi, Madrid, Amburgo, sino a Londra. Si manteneva con lavoretti: cameriere, lavapiatti, steward. Quella sera a Gerusalemme si attardò con la memoria sulle sue esperienze come steward su una nave della marina mercantile britannica. «Non mi trattavano male, ma c’erano lunghe ore di tedio che cercavo di colmare leggendo tutto ciò che trovavo a tiro», diceva.
Nel 1962, a 31 anni, si presenta al corrispondente da Londra per il Corriere, che allora era Piero Ottone, per offrirsi come collaboratore. Alla direzione piace subito il suo stile diretto, l’amore per il racconto vissuto sul campo. Lo richiamano a Roma e Milano, poi nel 1979 riceve il primo incarico da inviato per gli Esteri. Il direttore Franco Di Bella gli dà fiducia: la storia è importante, siamo nel mezzo della rivoluzione iraniana e l’Ayatollah Khomeini è appena tornato a Teheran.
Ettore si tuffa nella grande politica internazionale. Pochi mesi dopo è folgorato dall’amore per il suo lavoro quando raggiunge l’Afghanistan. Inizia a seguire la guerra tra le brigate dei mujaheddin contro l’esercito d’invasione sovietico. E qui nel 1981 incontra uno dei personaggi che lo hanno più affascinato nella sua lunga carriera. Intervista Ahmad Shah Massud, il “leone del Panshir”, il leader laico delle milizie locali tagike che vogliono scacciare i russi e però sono contrarie ai gruppi radicali islamici pashtun che ben presto formeranno il nocciolo duro delle formazioni militari talebane. I due si vedono più volte. Nei suoi ultimi viaggi in Afghanistan, sino a pochi anni fa, Ettore insisteva sempre per portare un fiore sulla tomba di Massud, assassinato dai militanti di Al Qaeda due giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001.
Ha insistito per continuare a lavorare sin verso gli ottant’anni e i suoi servizi speciali toccano gran parte del nostro pianeta: dalla guerra nella ex Jugoslavia, alla Cecenia, al Pakistan, all’India. Fu tra l’altro uno dei pochi reporter occidentali che andarono a trovare i leader del neonato movimento di Hamas a Gaza quando vennero espulsi in Libano dal governo israeliano tra il 1992 e 1993. Rimase nelle loro tende nella terra di nessuno vicino al confine israeliano per 48 ore. Per lui il dovere di andare e raccontare superava qualsiasi barriera o pregiudizio.
Aldo Abuaf era un caro amico di Mimmo, nella sua prima vita vigile a Milano e nella seconda, ormai fisso a Cuba dove i due si conobbero, fotografo, stringer e collaboratore di alcuni fogli. L’ho incontrato l’ultima volta nel 2016 all’Havana, quando sono andata a sentire i Rolling Stones davanti all’impressionante folla di 500 mila persone: ha dato una mano anche a me. Quando Mimmo se n’è andato, l’ho pensato e mi son detta che non avrei saputo più nulla di Aldo e mi spiaceva. Invece si è fatto vivo di recente, via Facebook, e adesso so come trovarlo.Gli ho subito chiesto un ricordo del Nostro, e lui me lo ha mandato a spron battente. Eccolo qui sotto.
Durante la mia permanenza a Cuba ho avuto modo di conoscere e frequentare persone popolari o comunque famose tra politici, gente dello spettacolo e soprattutto giornalisti. Alcune di queste persone semplici e sincere, altre con un poco di puzzetta sotto il naso e una buona dose di egoismo e opportunismo. Fra i giornalisti, tutti di primo piano, ce n’è stato uno che mi ha toccato nel profondo e che ancora oggi, a oltre 5 anni dalla sua scomparsa è sempre presente nei miei pensieri. È stato quello che più mi ha aiutato e tenuto in considerazione per quel poco di sostegno che posso avergli dato nelle sue ricerche e investigazioni sempre precise, meticolose e soprattutto oneste. Non abbiamo mai parlato di politica fra noi e non so per chi simpatizzasse anche se per il suo modo di essere e di fare credo, senza timore di sbagliarmi che la punta del suo cuore battesse a sinistra, certamente moderata come era moderato lui nel suo quotidiano. Così è nata un’amicizia tardiva, non di quelle della tenera età e non certo agevolata dalla distanza, ma abbastanza forte per incredibile che possa sembrare.
Immagino che le sue cronache manchino anche ai lettori de “La Stampa”, il giornale che era la sua ragione di vita lavorativa. Ha scritto anche due libri editi da Rizzoli e Baldini e Castoldi, raccontando le sue esperienze professionali, ma soprattutto umane in molti Paesi del terzo e quarto Mondo, mettendo in risalto specialmente la vita, la morte e gli stenti di molti appartenenti a quei popoli infelici che sicuramente lo hanno segnato al suo interno. In uno di loro parla della sua espulsione da Cuba come “persona non grata” (avvenuta durante il mio provvisorio, ma prolungato rientro in Italia) accusato di essere un agente della CIA. Era l’epoca del “Periodo Especial” dove la vita qui si era fatta ancora più dura e la paranoia, già esistente, verso presunti agenti del “nemico” era ai massimi livelli. Personalmente credo che la sua puntigliosità nell’andare in fondo alla notizia lo portava a scavare fino alla radice facendo suonare campanelli d’allarme, in questo caso assolutamente ingiustificati. Molti anni prima, era toccata la stessa sorte anche all’architetto Vittorio Garatti che solo dopo oltre trent’anni è stato riabilitato e invitato a Cuba con onore e una mostra dei suoi lavori. Penso che sarebbe successo anche a lui, una persona cristallina che aveva il solo difetto di voler essere perfetto nel suo lavoro e che indubbiamente simpatizzava, nonostante tutto, con la Rivoluzione Cubana.
Sono ancora colpito dal suo modo incredibile di entrare nella vita del prossimo in punta di piedi con un rispetto e un’educazione sulla via dell’oblio in un Mondo che aveva già iniziato la strada della sguaiataggine. A differenza di altri colleghi non ha mai fatto pressione per avere particolari riguardi o “dritte” su fatti e persone. Se le è sempre cercate da solo avvalendosi solamente di poco più che della solidarietà e l’amicizia che si era formata incredibilmente fra due persone che si vedevano e/o parlavano in tempi assolutamente brevi nel contesto generale. Credo che uno dei suoi rimpianti sia stato quello di non aver potuto fare un’intervista a Fidel Castro, cosa riuscita a un famoso collega che non aveva certo i suoi scrupoli e la sua gratitudine. Un vero gentiluomo del Sud, di quelli “di una volta”. Non aveva mai dimenticato le sue origini calabresi nonostante fosse stato fagocitato dal profondo Nord per la sua attività professionale e anche personale.
Sono profondamente materialista e non credente per pensare che mi possa vedere dall’alto del Cielo, però la sensazione della sua presenza la sento ancora oggi. Hasta siempre, Mimmo!
Nel rapporto della Commissione europea sullo Stato di Diritto dell’Unione, pubblicato questo luglio, l’Ue ha rilevato che in Italia c’è stato un deterioramento della libertà di espressione rispetto alla quale si trova nella stessa fascia di rischio di Albania, Bulgaria, Croazia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Polonia, Serbia, Slovenia e Spagna.
Nel rapporto della Commissione europea sullo Stato di Diritto dell’Unione, pubblicato questo luglio, e nello specifico nella sezione che riguarda il pluralismo dei media e la libertà di informazione nei paesi membri, l’Ue classifica l’Italia come a “rischio medio” per quanto riguarda la protezione della libertà di espressione, l’indipendenza politica dei media e l’inclusione sociale. In generale dall’ultimo report del Centre for Media Pluralism and Media Freedom (CMPF) sul tema, emerge come l’Italia si sia conquistata il rischio medio per un deterioramento della libertà di espressione rispetto alla quale si trova nella stessa fascia di rischio di Albania, Bulgaria, Croazia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Polonia, Serbia, Slovenia e Spagna.
A preoccupare la Commissione Europea due fattori nello specifico: le aggressioni nei confronti dei giornalisti e le querele temerarie (“SLAPP”, strategic lawsuits against public participation). Nel rapporto del 2022 l’Italia si collocava sempre su una posizione di rischio medio ma con un peggioramento del ranking di 5 punti percentuali per via dell’aumento delle intimidazioni del 42% rispetto all’anno precedente e delle azioni legali contro i giornalisti.
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