dal mondo

Questa sezione è dedicata a segnalare, nel campo della copertura della politica internazionale, quelle personalità giornalistiche e quegli episodi che ci paiono meglio rappresentare la lezione di indipendenza e libertà intellettuale lasciataci in eredità da Mimmo Càndito.


Assange, sentenza contro diritti umani e democrazia

11 Dicembre, 2021

Assange, sentenza contro diritti umani e democrazia

da “Il Manifesto” – Vincenzo Vita, 11.12.2021

Una sentenza che ci riguarda Se perde WikiLeaks, esce sconfitta completamente la libertà di informazione. Sarebbe un precedente gravissimo: la verità sulle guerre, d’ora in poi, sarà solo quella del potere

Talvolta capita che un accidente dia l’idea della sostanza. Un episodio, come una sineddoche, disegna i colori del quadro. È il caso della ormai annosa «serie» di Julian Assange, nella quale il cattivo a giudizio è ben più buono dei suoi inquirenti multiformi.

Venuti dalla Svezia o dalla Gran Bretagna o dagli States. I veri cattivi. I colpevoli a piede libero. Purtroppo, siamo di fronte ad una sequenza drammatica, che ricorda da vicino l’affare Dreyfus o le iniziative repressive tipiche degli universi autoritari: dall’Egitto, all’Arabia Saudita, alla Polonia, all’Ungheria. Per citare luoghi di avvenimenti tristi e recenti.

L’ALTA CORTE DI LONDRA si è rimangiata la decisione dello scorso gennaio sulla vicenda di Julian Assange. Sul giornalista fondatore di WikiLeaks pende la condanna annunciata per la violazione di una legge del 1917 contro lo spionaggio. Ad Assange non viene riconosciuto la status di giornalista, mentre lo è di diritto e di fatto. A causa di simile cinica astuzia, non si ritiene applicabile alle divulgazioni di tante criminali malefatte delle guerre in Iraq e in Afghanistan il primo emendamento della Costituzione degli Stati uniti. Vale a dire la tutela sacrale del diritto di cronaca. La garanzia venne applicata, invece, ai Pentagon Papers, che in 7000 pagine svelavano vicende e retroscena della guerra del Vietnam. Tant’è che i dossier vennero pubblicati dal New York Times e dal Washington Post senza conseguenze giudiziarie, in cui non incappò la stessa fonte Daniel Ellsberg.

LA NOVITÀ DI IERI risiede nel cambiamento di atteggiamento della giustizia britannica, che nell’ultima udienza ha deciso di accedere alla richiesta di estradizione rivolta al tribunale inglese dagli Usa. In precedenza fu risposto di no, date le condizioni assai preoccupanti della condizione psichica e fisica di Assange. Del resto, Nils Melze, il relatore delle Nazioni unite contro la tortura, già nel 2019 aveva sottolineato quanto alto fosse il rischio per la vita dell’imputato, persino di suicidio. Ora, dopo qualche rassicurazione sulle condizioni carcerarie statunitensi, l’Alta Corte ci ha ripensato, concedendo il disco verde ai voleri imperiali.

Sotto il profilo procedurale, le carte dovranno passare ad un tribunale tecnicamente inferiore (era un appello) per il via libera. Ma, purtroppo, il dado sembra tratto. Salvo miracoli laici.

LA MOGLIE E AVVOCATA di Assange, Stella Morris ha preannunciato ricorsi e battaglie legali. Speriamo. Mai arrendersi. La federazione della stampa italiana e l’associazione Articolo21 hanno giustamente ribadito la volontà di continuare una lotta che riguarda sì una persona, capro espiatorio di un potere che da accusato è diventato accusatore. Tocca, però, tutte e tutti coloro che lavorano nell’informazione. Assange va condannato, secondo quella perversa logica. Altrimenti, sono i governi implicati a correre il rischio di rispondere di eccidi e azioni cruente contro militari e civili.

Non solo. Se perde WikiLeaks, esce sconfitta completamente la libertà di informazione.

Sarebbe un precedente gravissimo, i cui effetti diretti e collaterali sono inimmaginabili. A tingere di surreale la scena tragica sta la convocazione da parte del presidente Joe Biden in questi giorni – 9 e 10 dicembre – di un cosiddetto «Summit per la democrazia», con invito rivolto a ben 111 paesi. Quale democrazia? In verità, la storia di Assange è la negazione di ogni statuto civile e liberale. È la pura affermazione della legge del più forte. Si tratta di un esempio di ciò che la sociologia politica chiama post-democrazia.

LE ISTITUZIONI ITALIANE ed europee non possono chinare la testa. Se si accetta supinamente un simile verdetto, la prossima volta a chi toccherà? Travolto un principio basilare, la ferita è per sempre. E le Nazioni unite tacciono? Regole e consuetudini sono buttate nella spazzatura? È auspicabile che tra i democratici americani si apra una discussione seria, perché -a dire il vero- sembra che sia ancora al Campidoglio Donald Trump. Il parlamento italiano, a sua volta, ha perso un’occasione, respingendo nei giorni scorsi una mozione presentata dal deputato Pino Cabras, che meritava giudizi aperti e costruttivi.

NIENTE VIETA, in verità, che alla luce degli eventi si possa tornare sulle decisioni. Non è azzardato, in considerazione delle conclamate sensibilità, chiedere al presidente Mattarella di muovere un passo diplomatico verso la potenza d’oltre oceano. Che rischia di vedere presto il mappamondo girare da un’altra parte. Se non si richiama alle sue vantate origini democratiche, che ne resta dell’Occidente? Altro paradosso: ieri si celebrava la giornata mondiale dei diritti umani.

© 2021

Gli Stati uniti avranno la testa di Assange

11 Dicembre, 2021

da “Il Manifesto” – Leonardo Clausi, LONDRA, 11.12.2021

Wikileaks L’Alta corte di Londra ribalta la prima sentenza: l’attivista può essere estradato negli Usa dove verrà processato per spionaggio

Londra, prime ore del mattino di ieri. Le giacche blu della cavalleria yankee irrompono al galoppo nella suprema corte britannica, scompigliano le parrucche dei giudici e sequestrano il prigioniero.
Cinemascope a parte, è quanto è successo ieri a Julian Assange, ora a un soffio dall’estradizione negli Usa. I legali statunitensi hanno vinto l’appello per portarsi a casa lo scalpo del fondatore di Wikileaks, reo di aver mostrato al mondo le esternalità della democrazia aviotrasportata in Iraq e Afghanistan.

Due giudici super-senior, Lord Chief Justice Lord Burnett e Lord Justice Holroyde, hanno sentenziato che Assange debba essere estradato negli Stati uniti e ivi processato per spionaggio, annullando un parere precedente grazie alle assicurazioni della posse dei legali di Washington che l’imputato sarà trattato umanamente: non sarà tenuto in isolamento e nemmeno in una prigione di massima sicurezza, hanno garantito, a meno che non faccia qualcosa «per meritarselo».

L’ATTIVISTA Stella Morris, compagna di Assange, futura sua moglie (gli è stato appena concesso il permesso di sposarla) e madre dei suoi due figli ha definito la sentenza «pericolosa e fuorviante» come anche «inaffidabili» le rassicurazioni sul trattamento dell’imputato da cui i giudici si sono lasciati convincere. Lei e la squadra legale di Assange hanno già annunciato un ulteriore appello «non appena possibile». Ma i tempi sono stretti, un paio di settimane al massimo, e c’è davvero il rischio che sia finita.

Julian Assange aveva precedentemente evitato il rischio di estradizione. Questa decisione rovescia quella presa dal giudice distrettuale Vanessa Baraitser lo scorso gennaio. In quell’occasione, Baraitser aveva deliberato che l’hacker e giornalista australiano non dovesse essere estradato per seri rischi alla sua salute mentale – in particolare quello «opprimente» di suicidio – laddove fosse stato sottoposto a isolamento e duro regime detentivo negli Stati uniti. La decisione era stata presa anche in seguito alla testimonianza di Michael Kopelman, neuropsichiatra del King’s College di Londra, che aveva trovato Assange in fragili condizioni psichiche, come sarebbe stato chiunque dopo una cattività infinita fra carceri e i venti metri quadrati di Ecuador (l’ambasciata del paese latinoamericano a Londra) in cui si era rifugiato dal 2012 al 2019 per sfuggire a un’accusa di stupro in Svezia, poi ritirata. Da allora è recluso in isolamento nel carcere londinese di Belmarsh. Nel complesso è dal 7 dicembre 2010, undici anni, che è in un modo o nell’altro recluso.

Com’è noto, gli statunitensi vogliono processarlo per accuse di spionaggio risalenti al 2019 per «una delle maggiori compromissioni di informazioni segrete nella storia degli Usa», avendo Assange, con la collaborazione di Chelsea Manning, divulgato documenti top secret legati alle trionfali campagne (lanciate presumibilmente anche per la libertà di stampa) Usa a zonzo per il pianeta nell’ultimo trentennio. Qualcosa come 90.000 rapporti di guerra in Afghanistan, 400.000 in Iraq, 800 valutazioni di detenuti a Guantanamo Bay e 250.000

cablogrammi diplomatici del Dipartimento di Stato. Alcuni di questi documenti mostravano crimini di guerra, come “involontarie” stragi di civili. Per Assange l’estradizione è già di per sé una condanna. Su di lui pesano diciotto capi di imputazione. Rischia 175 anni di galera.

IN QUESTA pluridecennale zozzeria, l’aspetto “criminale” dell’accusa mossagli è ovviamente specioso. Questo è un processo politico bello e buono in cui si crea un precedente per perseguitare il giornalismo che non ci piace in mezzo a tanto assordante ciacolare sui diritti umani e giornalistici perseguitati dagli “altri”. Ed è anche uno di quei casi in cui la sudditanza diplomatica di Londra nei confronti di Washington (come nel caso di Anne Sacoolas, agente americana fuggita in patria dopo aver accidentalmente investito un giovane vicino a una base militare della Raf e finora mai estradata grazie all’immunità diplomatica) salta maggiormente agli occhi: quando la special relationship esprime una sua intrinseca natura semicoloniale nello squilibrio tra diseguali.

© 2021

Il prigioniero politico Julian Assange finisce in «Camera caritatis»

8 Dicembre, 2021

Da “Il Manifesto” 5.12.21 – Gian Giacomo Migone, 05.12.2021

È attualmente detenuto nel Regno Unito ed è a forte rischio di estradizione negli Stati Uniti, con conseguenze fisiche e morali che non è difficile prevedere

La Camera dei Deputati ha appena respinto, con 225 voti contrari, 22 favorevoli e 137 astenuti, una risoluzione presentata dal gruppo di Alternativa (fuorusciti dal M5S in occasione della costituzione del governo Draghi), prima firma Pino Cabras, vice presidente della Commissione Esteri, che impegnava il governo italiano a intervenire per la tutela di Julian Assange, attualmente prigioniero politico nel Regno Unito e a forte rischio di estradizione negli Stati Uniti, con conseguenze fisiche e morali che non è difficile prevedere.

Se risulta scontata l’opposizione di Forza Italia il suo portavoce di politica estera, Valentino Valentini, ha denunciato il fondatore di Wikileaks quale autore di «un atto di sabotaggio sistemico»
e della Lega, come anche il parere contrario del governo Draghi, risulta lesivo di ogni elementare diritto umano e di diritto democratico alla conoscenza di atti governativi il voto negativo compatto dei deputati del Pd e, a dir poco, contradditorio, quello di astensione da parte dei loro colleghi del M5S e di LeU che pur continuano a dichiararsi solidali con Assange.
Sgombriamo, innanzitutto, il campo da una pur colpevole ignoranza da parte di parlamentari della materia in oggetto, anche se, forse, relativamente poco interessante perché non attinente alla durata della legislatura.

Assange e, successivamente, Frank Snowden, con l’aiuto di Chelsea Manning – più recentemente, proprio pochi mesi Daniel Hale, il giovane esperto di guerra dei droni che ne ha rivelato l’uso criminale nella guerra afghana ed è stato condannato da una Corte militare a 4 anni di carcere , sono stati i protagonisti di una grande operazione di trasparenza democratica, rivelando la documentazione, abusivamente secretata dal governo degli Stati Uniti, che ha messo a disposizione del pubblico fatti occultati riguardo alle guerre condotte, in alleanza con la Nato, Italia compresa, in Afghanistan, Iraq e Libia, con esiti tragici ancora in atto.

Sulla scia della pubblicazione dei Pentagon Papers, ad opera di Daniel Ellsberg, che in tempi lontani contribuirono in maniera importante a segnare la fine della guerra contro il Vietnam, la nuova documentazione è stata messa a disposizione di un più vasto pubblico, per opera di alcune delle più importanti testate mediatiche internazionali, anche se quelle italiane, con poche eccezioni virtuose, rimasero cospicuamente silenti.

In questi, come in altri casi, hanno rotto questo silenzio, oltre che le forze politiche oggi astenute, alcune testimonianze importanti quali quelle generate dalle iniziative di una commissione del Senato presieduta dal senatore Giovanni Marilotti (anch’egli ex M5S, ora indipendente nel gruppo Pd) e dall’opera d’inchiesta giornalistica di Stefania Maurizi, culminata con la pubblicazione di un libro dedicato al caso Assange (cfr. “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks”, Chiarelettere, 2021); che, in maniera serena e documentata, tra l’altro ricostruisce il non luogo a procedere, da parte della magistratura svedese, per una accusa di stupro, accertata come non sussistente che, in una fase precedente, avrebbe potuto determinare l’estradizione di Assange, agognata dalle autorità di Washington.

Sicuramente più diffusa, alla Camera dei Deputati, anche tra le forze di centro sinistra, è la

perdurante «ibidine di servilismo» nei confronti degli Stati Uniti, per usare una definizione coniata, all’epoca della Costituente, da Vittorio Emanuele Orlando, ex presidente del consiglio, liberale. Un fenomeno, o atteggiamento, che si ripropone puntualmente ogni volta che si affaccia anche lontanamente una possibile divergenza di orientamento politico con il pur declinante alleato di Washington.

In questo caso vi è di più. Il caso Assange mette in gioco il diritto democratico dei cittadini alla conoscenza delle scelte di governo e le motivazioni che lo accompagnano. I paladini della Ragion di stato, che a parole si dichiarano favorevoli ad ogni possibile trasparenza, lo temono quale pericoloso precedente. Ad esempio, quale seguito intende dare Mario Draghi ai suoi impegni di accesso ad atti del passato, tuttora politicamente rilevanti, anche recentemente invocati dal presidente Mattarella?

© 2021 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

Sul caso Assange

6 Luglio, 2021

La rassegna stampa è spesso la cartina di tornasole del successo di una iniziativa. Sul convegno in Senato dedicato ai Whistleblowers e in particolare al caso Assange, dello scorso 25 giugno, troverete qui link e articoli informativi e analisi più approfondite, da parte di analisti specializzati, che danno il segno del lavoro davvero notevole svolto in questo primo incontro dell’Associazione Mimmo Càndito, al quale speriamo ne segua almeno un altro in autunno. Ringraziamo il prof. Migone che ha reso possibile tutto questo con il suo impegno, l’esperienza e la profondità delle tesi. E grazie al Senatore Marilotti per l’ospitalità nella Biblioteca del Senato, e a tutti i colleghi che hanno aderito all’iniziativa: abbiamo messo insieme un team di specialisti e associazioni virtuose che possono riservare ancora sorprese e chissà, riaprire un cono di luce sul futuro del giornalismo. Circa 500 i contatti per lo streaming su You Tube: anche questo un successo, visto l’argomento, il profilo, la lunghezza di circa due ore. 

Marinella Venegoni

La giornalista turca nelle spire della censura di Erdogan
“Giornali controllati, reporter in cella… e i casi Draghi e von der Leyen”

20 Aprile, 2021

Giordano Stabile, autore di questo reportage comparso il 19-4-2021 su La Stampa, quando lavorava in redazione a Torino ha frequentato a lungo Mimmo Càndito. E un po’ si intuisce la fascinazione per la sua scrittura, nell’ambientazione di una livida Istanbul e nella drammatica intervista  alla giornalista Ipek Yezdani, che racconta la deriva dell’informazione libera in Turchia ai tempi di Erdogan. 


Giordano Stabile

C’è soltanto qualche cane randagio a trotterellare lungo Sulayman Seba. A parte un minimarket e un fruttivendolo, è tutto chiuso, e la sfilza di bar e ristoranti che di solito brulicano di clienti hanno un’aria spettrale. Dall’imbarcadero sul Bosforo la strada dedicata al patron della squadra del Besiktas sale ripida. Una statua lo ricorda all’ingresso di un piccolo giardino. Ipek Yezdani racconta qui la sua storia, in una Istanbul nella morsa del Covid e del coprifuoco che cristallizza dalle sette di sera del venerdì al mattino del lunedì questa megalopoli di 18 milioni di abitanti. Ma la cappa più oppressiva è quella calata sui giornalisti come lei. Essere imparziali, riassume, «non basta più». Se non hai una posizione pro-governativa diventa impossibile lavorare. Yezdani, di origini azero-iraniane da parte di padre, ci è passata in pieno, ha sceso tutti i gradini nel giro di vite contro i reporter non allineati che ha fatto precipitare la Turchia alla 154ª posizione nella classifica della libertà di stampa.

Corrispondente dalle Nazioni Uniti da New York per il «Cumhuriyet», il principale quotidiano repubblicano e di sinistra, poi firma internazionale di «Hurriyet», ha visto i margini di manovra stringersi sempre più, soprattutto dopo il fallito golpe del 2016, fino a perdere il posto e la possibilità di scrivere per qualsiasi giornale nazionale.

Ora collabora con testate straniere, guadagna «anche meglio», ma sempre con la tensione di una possibile querela, o peggio dell’arresto. È in questo modo che si schiaccia la stampa libera in un Paese dove comunque ci sono partiti di opposizione, una società civile molto vivace. «Il governo non interviene direttamente, preferisce utilizzare imprenditori amici per prendere il controllo dei principali gruppi mediatici e poi indirizzarli». È successo così con «Hurriyet». L’ editore Aydin Dogan aveva costruito un piccolo impero, con giornali e tivù. Le pressioni sono state tali che ha dovuto cedere tutto a Yildirim Demiroren, vicino al potere. «Era il 2018. Il nostro direttore ha resistito e ci ha difesi per un anno e mezzo. Poi è stato costretto a dimettersi, e sono scattati i licenziamenti, mirati, 35. La maggior parte di quelli che non sostenevano la linea governativa. Non ci hanno pagato neanche la liquidazione». Una lotta durata mesi, con tutti i mezzi. «Abbiamo aderito al sindacato dei giornalisti. In Turchia il livello di sindacalizzazione è molto basso. Ma se in una testata si supera una certa soglia percentuale di iscritti, scattano maggiori tutele. Quando ci siamo avvicinati sono partiti i licenziamenti».
Yezdani ha trovato un altro lavoro, in una nuova emittente, Olay Tv. «È durata 26 giorni». Ma non si è arresa e non ha voluto lasciare il suo Paese. L’orgoglio nazionale resta intatto, nonostante la repressione delle libertà. Per questo le parole del premier italiano Mario Draghi, che ha definito il presidente Recep Tayyip Erdogan «un dittatore», non l’entusiasmano. «A essere sincera questa polemica qui non è stata molto sentita. La gente ha problemi ben maggiori. La crisi economica è esplosa con il Covid. Ci sono persone costrette a rovistare fra gli scarti dei supermercati per trovare qualcosa da mangiare. Non ci ricordavamo più scene di questo tipo, ci portano a un lontano passato di miseria. Per quanto riguarda le libertà, basta guardare ad alcuni dati. Siamo agli ultimi posti al mondo per la libertà di stampa, e ci giochiamo il primato con Cina e Iran per numero di reporter in carcere. Accuse pretestuose per “terrorismo” ti portano dietro le sbarre. E se non appoggi apertamente il governo, finisci per strada».

Si sente più toccata dal trattamento subito dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, con quella sedia mancante che sa tanto di maschilismo. «Sì, c’è molto machismo, ma anche da parte del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, va detto. È un problema della Turchia, e di tanta parte del mondo. C’è sessismo nelle redazioni, per mia esperienza, pure in America o Gran Bretagna». E ad aggravare le cose è arrivato il ritiro dalla Convenzione di Istanbul. «Non sono sposata e quindi non devo difendermi da un marito che mi picchia – ironizza amara -. Però conosco molte donne che con l’aiuto della Convenzione si potevano difendere dalla violenza, soprattutto dopo il divorzio». La Turchia è stato il primo Paese a firmare la Convenzione, dieci anni fa, ricorda. Perché proprio adesso questa decisione? «Il partito al governo, l’Akp, è in difficoltà e cerca voti negli ambienti più conservatori. Ma resta comunque in crisi e non credo che se oggi si votasse, in elezione corrette, riuscirebbe a vincere».


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