dal mondo

Questa sezione è dedicata a segnalare, nel campo della copertura della politica internazionale, quelle personalità giornalistiche e quegli episodi che ci paiono meglio rappresentare la lezione di indipendenza e libertà intellettuale lasciataci in eredità da Mimmo Càndito.


Romania, troupe del Tg1 intervista la senatrice No Vax e viene sequestrata

14 Dicembre, 2021

Da “La Stampa” – 13 Dicembre 2021

Lucia Goracci sequestrata con troupe Rai in Romania dopo intervista alla senatrice No Vax Diana Iovanovici Șoșoacă

L’inviata: «Malmenati e perquisiti, liberati solo dopo ore grazie all’intervento dell’ambasciata italiana»

Chiusi dentro l’ufficio, malmenati e perquisiti. Questo è quanto accaduto a una troupe del Tg1 inviata in Romania a intervistare la senatrice No Vax Diana Iovanovici Șoșoacă. Stando a quanto ha riportato l’inviata della tv pubblica Lucia Goracci, e testimoniato da un video, alla troupe è stato concesso soltanto di fare poche domande sulla situazione della pandemia nel paese.

La senatrice prima ha fermamente negato l’esistenza stessa della pandemia poi, incalzata dalla giornalista ha chiuso l’ufficio a chiave e chiamato la polizia. Agli agenti intervenuti prontamente la senatrice ha chiesto di perquisire la troupe e di cancellare le immagini registrate. Ci sono volute 8 ore, ha denunciato Lucia Goracci, perché la situazione grazie all’intervento dell’ambasciata italiana tornasse sotto controllo. 

La democrazia occidentale e i suoi nemici

13 Dicembre, 2021

Da “La Stampa” – 12 dicembre 2021 – Massimo Giannini

Fa un certo effetto leggere le cronache del “Summit per la Democrazia”, convocato online dall’Amministrazione Usa per discutere con i leader di ben 111 Paesi sullo stato di salute del mondo libero, nelle stesse ore in cui l’ex capo dello staff di Donald Trump alla Casa Bianca rivela l’esistenza di un simil-golpe per far saltare la proclamazione della vittoria di Joe Biden alle presidenziali del dicembre 2020. Di fronte a un cortocircuito logico-politico così evidente, più che il celebratissimo saggio di Karl Popper sulla “società aperta e i suoi nemici”, torna in mente un vecchissimo fumetto di Walt Kelly. Nel 1971, celebrando la Giornata mondiale della Terra e constatando i danni già allora devastanti inflitti al pianeta dalla mano dell’uomo, il cartoonist americano ci svelava con una battuta folgorante quello che troppo spesso non vogliamo vedere: “Abbiamo incontrato il nemico: siamo noi”.

La Dottrina Biden è ormai nota: è in atto una “recessione globale delle democrazie” e un’aggressione sistematica delle autocrazie. La Cina e la Russia, la Turchia e l’Iran. La minaccia è ovunque. E gli eserciti nemici, come l’Impero del Male teorizzato a suo tempo da Bush, incedono su più fronti. A colpi di armamenti e/o di investimenti. Di qui l’appello quasi sturziano ai “liberi e forti”: serve una grande alleanza, per difendere i nostri valori e i nostri principi, le nostre identità e le nostre libertà. Detta così sembra bella: cosa c’è di più buono e più giusto di un fronte comune a difesa delle liberaldemocrazie, stremate dall’emergenza pandemica, logorate dalla recessione economica, destabilizzate dal Grande Disordine Mondiale? In teoria, nulla. In pratica, la questione è più complessa. Per due motivi.

Il primo: le nostre nazioni allarmate non hanno le carte in regola per denunciare la “recessione democratica” altrui, se prima non si interrogano su cosa stia accadendo a loro stesse. Il secondo: al di là di un generico appello ideale, che se resta tale rischia persino di diventare ideologico, questo “Club delle democrazie” finora non ha saputo opporre granché di concreto ai suoi avversari esterni.

Oggi Freedom House ritiene che solo il 20% dei Paesi del globo sia pienamente libero, contro il 39 di dieci anni fa. Di qui l’invito agli Stati: fate “ordine in casa vostra”. Vale innanzitutto per gli Stati Uniti, dove Trump resta fortissimo nonostante le prove tecniche di colpo di Stato avviate con l’assedio a Capitol Hill, la sanità pubblica resta un tabù per 40 milioni di disperati, “black lives matter” resta uno slogan da corteo e Guantanamo resta una ferita mai curata all’habeas corpus. È il nuovo paradosso americano: gli Stati Uniti sono ancora “la più grande democrazia del pianeta”, ma non sono più “un esempio di democrazia”. E non lo dice solo uno storico progressista come Luciano Canfora. Lo sostiene il 17% degli intervistati, secondo un sondaggio internazionale di Pew Reasearch. Lo confermano i giovani tra i 18 e i 29 anni, che solo nel 7% dei casi ritengono gli Usa una “democrazia in buona salute”, secondo un’indagine dell’Harvard Institute of Politics.

Mettere “ordine in casa propria” è un dovere anche per l’Europa, dove le destre hanno ingrassato la tigre populista con l’ormone tossico dell’anti-politica e le sinistre non hanno fatto nulla per domarla. Il risultato è che governi e parlamenti hanno finito per delegittimare se stessi. E un numero crescente di cittadini, marginalizzati dalla globalizzazione ed esclusi dalla partecipazione, ha disconosciuto la propria cittadinanza. Convinti che votare non serva più a nulla, e che la democrazia non sia poi così importante. Perché non funziona, non decide, non risolve i problemi. Anche qui la disaffezione democratica non c’entra nulla con Xi o con Putin, ma promana direttamente dal ceto medio proletarizzato, arrabbiato e sobillato dagli impresari della paura, che ne hanno nutrito l’insicurezza sociale, l’ossessione razziale, il rancore istituzionale (lo spiega bene Tom Nichols nel suo ultimo saggio, “Il nemico dentro”, Luiss Editore).

Dunque il declino delle democrazie è in buona misura auto-prodotto. E sostituito dall’ascesa delle autocrazie elettive, dove i cripto-dittatori vincono opprimendo il popolo in nome del popolo. Senza arrivare in India o in Venezuela, basta fermarsi in Ungheria e in Polonia. Qui non servono più le giunte militari e il tintinnare di sciabole: le democrazie muoiono con altri mezzi, come sostengono Steven Levitsky e Daniel Ziblatt. Se questo è il quadro, Biden che invoca la Santa Alleanza somiglia al cane che abbaia alla luna. Guarda fuori, per non guardarsi dentro. All’opposto, chi ci vede benissimo è Papa Francesco: “La democrazia è un tesoro di civiltà e va custodita, non solo da un’entità superiore ma anche negli stessi Paesi. Contro la democrazia oggi vedo il pericolo dei populismi, che stanno ricominciando a mostrare le unghie…”. Bergoglio fiuta un pericolo reale: i populismi, spiazzati dal virus due anni fa, si stanno riorganizzando. Come avverte Ivan Krastev sul Financial Times, i nuovi lockdown imposti dalla variante Omicron stanno ridando filo da tessere alle forze anti-sistema dell’Unione.

Cina, Russia e potenze regionali incistate tra Asia e Medioriente speculano ovviamente sulla crisi delle democrazie occidentali. Lo fa la Cina, che cresce di una Russia all’anno e coltiva lungo le “Vie della Seta” un disegno egemonico e neo-imperiale. Con il 20% della popolazione mondiale e il 7% delle terre coltivate del pianeta, il Dragone esporta non il suo modello dittatoriale, ma la sua imponente capacità infrastrutturale, garantendola ai Paesi in via di sviluppo che possono assicurargli, insieme al posizionamento strategico, l’interscambio commerciale e alimentare. Dopo la feroce normalizzazione di Hong Kong, la tortura cinese si concentra adesso su Taiwan, il cui capo è colpito ogni giorno dalla goccia di Pechino che avverte: ricordati che devi cadere. E se lo ricordi anche Biden, firmatario dell’Aukuss con Australia e Gran Bretagna: il Pacifico non è “cosa loro”. La stessa cosa fa la Russia, che tiene in scacco l’Europa sul gas e North Stream 2 e continua ad ammassare truppe ai confini con l’Ucraina, alimentando un clima da invasione imminente. Cosa vuole davvero lo Zar di Mosca non è affatto chiaro, se non stoppare i tentativi di allargamento della Nato in quell’area.

Cosa oppone il Club a tutto questo risulta purtroppo ancora meno chiaro. Sulla Cina si balbetta. Sulla Russia si nicchia (a parte qualche rituale altolà, e ora l’annuncio di sanzioni Ue in arrivo per la famigerata Brigata Wagner, accusata di violazione dei diritti umani in Ucraina, in Siria e il Libia). Eppure la tragedia del Covid offrirebbe alle democrazie una magnifica opportunità. Invece di armare le truppe, carichiamo le siringhe. Vacciniamo subito quei 3 miliardi di persone che non se lo possono permettere. Finora il 66% dei Paesi del G7 ha ricevuto due dosi, mentre in Africa la quota è ferma al 7%. Pfizer ha consegnato 2 miliardi di vaccini, di cui 740 milioni di dosi ai paesi a basso e medio reddito, con un incasso di 36 miliardi di dollari. A fine 2022 consegnerà altri 1,8 miliardi di dosi, con un introito di altri 29 miliardi (per inciso, molto più della legge di bilancio appena varata da Draghi). Il colosso Usa vende il suo vaccino alla Ue a 19,50 euro a dose, mentre lo calmiera a 6,75 dollari per i Paesi a basso reddito. È ancora troppo, per chi non ha niente. E allora, in questo momento, il più grande spot per le democrazie non è il Club di Biden e nemmeno la guerra per Kiev o per Taipei. È il vaccino gratis, per tutti i poveri del mondo.

Londra, il dietrofront su Julian Assange

12 Dicembre, 2021

da “La Stampa” – ANNA ZAFESOVA – 11 Dicembre 2021

«Noi siamo l’antidoto alla tirannia», dice Dmitry Muratov, il direttore della Novaya Gazeta insignito del Nobel per la pace, ricordando dalla tribuna di Oslo a un mondo che «si è disinnamorato della democrazia» il ruolo del giornalismo nella sopravvivenza della libertà. Nelle stesse ore, un tribunale britannico apre un nuovo, ennesimo capitolo, nella saga giudiziaria interminabile di WikiLeaks, autorizzando l’estradizione di Julian Assange verso gli Stati Uniti, dove lo aspetta un processo nel quale rischia una condanna a decenni di carcere per aver ottenuto e pubblicato documenti segreti del governo americano. La polemica sul ruolo di Assange, e su quanto fosse legittimo accomunarlo a un giornalista, è stata al centro anche del dibattimento in aula. Esercitava il diritto alla libera informazione o stava cercando di screditare gli Stati Uniti con un’operazione senza precedenti? Rispondere affermativamente a entrambe le domande non sarebbe necessariamente una contraddizione.

Assange è stato infatti il primo di una serie di rivoluzionari digitali, un po’ giornalisti, un po’ politici, un po’ hacker e un po’ influencer, a volte spie che buttano il tesserino da 007 per diventare attivisti, a volte attivisti che in nome della loro battaglia si improvvisano spie, quelli che il termine inglese definisce “whistleblower”, il fischiatore. Eroi contraddittori e diversi, da Edward Snowden – che si nasconde alla giustizia americana nella Russia di Putin – ad Alexey Navalny, che proprio Putin ha rinchiuso in carcere, al team di cronisti d’inchiesta Bellingcat, al recente caso di Sergey Saveliev, l’ex detenuto riuscito a trafugare l’agghiacciante videoarchivio sulle torture nelle prigioni russe. Alcuni sfidano le democrazie, altri le dittature, sono mossi da motivazioni diverse, ma hanno tutti una cosa in comune: sono gli eroi del mondo digitale, dove i Papers e Leaks permettono di violare segreti di Stato, e di far entrare nel grande gioco dei servizi segreti anche chi non ne faceva parte.

Ovvio che di fronte a questi paladini della denuncia la tentazione dei governi e dei servizi sia quella di chiuderli in una cella e buttare via la chiave. I “whistleblower”sono sempre esistiti – basta ricordare la “gola profonda” del caso Watergate – così come le complicità dei media nel pubblicare informazioni che solo l’intelligence avrebbe potuto reperire. La novità di Assange è che non si è limitato a smascherare uno scandalo. Ha pubblicato una mole immensa di documenti, dove le informazioni autenticamente sensibili sono state sommerse da tonnellate di pettegolezzi politici e giudizi spregiudicati dei diplomatici americani sui loro interlocutori.

Nulla che i diretti interessati non sapessero, ordinaria amministrazione della diplomazia, coperta dal segreto non per ordire trame oscure, ma per evitare comprensibili imbarazzi. Forse il vero reato di Assange è proprio questo, aver esposto al grande pubblico i meccanismi del potere. In questo senso WikiLeaks è stata un’operazione populista ancora prima che il termine entrasse nel vocabolario politico, e il danno principale che ha arrecato è stato quello di diffondere disgusto verso chi governa le democrazie.

Con esultanza dei nemici delle democrazie, e non è un caso che la difesa più appassionata di Assange sia giunta dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, che ha parlato di “cannibalismo anglosassone”, come se decine di giornalisti non stessero scappando dalla Russia per colpa di persecuzioni, denunciate a gran voce dal Nobel Muratov.


Questo sito non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità . Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001.

Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi.

L’autore del blog non è responsabile dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo.